Il film di Liberato raccontato da chi l’ha fatto (2024)

Il film di Liberato raccontato da chi l’ha fatto (1)

Chi bazzica il mondo del fumetto ha sicuramente presente il nome di LRNZ, al secolo Lorenzo Ceccotti, autore di opere come Golem, Astrogramma e Geist Maschine. Anche chi è appassionato di illustrazione lo conosce, magari per le copertine di libri o i progetti per grandi marchi. Ma anche chi bazzica il design in senso lato sarà incappato nel nome di LRNZ. E pure i fan dell’animazione qualcosa di suo l’avranno visto. Potrei continuare, ma a questo punto meglio dire che è un creativo a tutto tondo per non rischiare di dimenticare qualche altro suo talento.

La sua ultima fatica è rappresentata dalle animazioni per Il segreto di Liberato, docufilm diretto da Francesco Lettieri e Giorgio Testi, dedicato al cantautore napoletano che si esibisce mascherato e di cui non si sa quasi nulla.

Insieme a Giuseppe Squillaci, LRNZ ha curato la regia della parte animata del film (realizzata in seno allo studio ILBE Animation), svolgendo anche il ruolo di concept artist e character designer. Ma, come per l’elenco delle sue professioni, i suoi ruoli sul progetto non si sono esauriti qui.

Come sei finito a fare questo film?

Liberato mi aveva contattato sui social nel 2022 perché gli piaceva il mio lavoro e voleva fare qualcosa con me, ma senza un obiettivo. Poi il destino ha voluto che la produttrice Ellida Bronzetti, che è stata la persona che per prima ha avuto l’idea del documentario, proponendolo a Lettieri e Liberato, era una mia ex-cliente, nella mia vita passata da designer, e ha raccolto la proposta di Liberato di fare una parte in animazione con grande entusiasmo. Quindi si è creato immediatamente un grande senso di familiarità e intesa.

La storia della parte animata era già tutta scritta o avete potuto collaborare?

Francesco Lettieri ha scritto una sceneggiatura completa, però si è affidato a noi nel momento di tradurre la sceneggiatura a cartoni. La grammatica dell’animazione è diversa da quella del cinema dal vivo. Banalmente, ci sono delle cose che vanno rese più articolate o semplificate, e poi fattori terra terra di fattibilità: per esempio, semplificare una scena per recuperare ore di lavoro su un’inquadratura importante che sai che sarà un bagno di sangue.

Oppure, ti faccio un esempio banale: il mio primo obiettivo era che tutti dovevano uscire dalla sala affezionati a Liberato e Lucia. Siccome è un film di teste parlanti, non potevo saltare a piè pari i dialoghi con dei piani d’ascolto come fa Makoto Shinkai che ti fa vedere bellissimi paesaggi mentre i personaggi parlano: qui bisognava vederli i personaggi, mentre si guardano negli occhi. Sapevo che, nonostante gli ottimi animatori che avevamo, quelle erano inquadrature che non avrebbero imbroccato al primo tentativo.

E quindi l’economia è stata gestita anche in questi termini: alcune inquadrature che sulla carta sono semplici, tipo Lucia che guarda lo spettatore e sbatte gli occhi, sono problematiche perché devono venire perfette. E magari una scena in cui i personaggi camminano in campo lungo può essere risolta con un piano americano, senza dover animare i piedi, dedicando tempo e risorse ad altro.

Altro esempio: aumentare i tagli per evitare di animare i personaggi che ruotano la testa. Cercavo di andare nella direzione dei disegni fermi. Così però si creava la necessità di più sfondi, visto che cambi sempre inquadratura. Quale risorse avevamo più disponibili? Animatori o background artist? Cosa poteva essere risolto al compositing?

L’animazione è un lavoro profondamente creativo, nella scrittura e nella regia, e dall’altra molto logistico, nella capacità di amministrare le risorse. E in questo Giuseppe è stato fondamentale, perché abituato a lavorare in strutture articolate e complesse. Mi ha schermato dalla parte organizzativa del lavoro lasciandomi concentrare sulla questione puramente formale.

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Con che tempistiche avete lavorato?

Considera che questo è un film la cui pre-produzione è avvenuta in estate e la parte operativa dell’animazione è iniziata a dicembre. Non è che puoi permetterti tanti errori. È stato come suonare dal vivo rispetto a suonare in studio. Ci sono quelli che quando suonano dal vivo vanno avanti a prescindere dagli sgarri che fanno.

Se, come me, hai voglia di non sbagliare, ma hai anche l’ambizione di spingerti oltre la tua comfort zone, ti ritrovi in un tipo di situazione che impone una performance molto diversa dal solito. E in queste situazioni non puoi che tirare fuori il meglio di te. Inoltre, Liberato ha un tale livello di perfezionismo che quella cosa diventa un traino, un’asticella che devi provare a tenere alta.

Liberato vi ha dato molti input?

È stato in trincea con noi perché ha creato una nuova colonna sonora per l’animazione. Considera che l’ultimo pezzo di creatività che è stato prodotto per questo film l’ha messo lui. Noi abbiamo consegnato le animazioni alle sei di mattina dell’ultimo giorno disponibile. E in quest’ultima versione c’era una scena cambiata, perché c’era venuta un’idea dell’ultimo secondo per una scena più bella, con una sequenza con le nuvole.

Solo che non c’era la copertura audio per quel momento, e a Francesco Lettieri sembrava un po’ fuori posto. Liberato ha detto «no, no, vediamo se con la musica riusciamo a farla funzionare» e ha creato un pezzo di musica bellissimo, seduta stante, suonandolo con la tastiera alfanumerica di un laptop. E poi al doppiaggio è stato un fenomeno inarrestabile, ci ha sorpreso a ogni take con una montagna di invenzioni. Per farti capire quanto era coinvolto.

E sul resto del film?

Ci ha dato carta bianca. Ha un approccio per cui si fida ciecamente e poi, se c’è qualcosa che lo disturba o che pensa possa essere migliorato, lo dice. Non mi sembra che voglia interferire con i processi creativi degli altri, a meno che non ci siano problemi inconciliabili con la sua visione. Delle volte ha fatto delle osservazioni che erano talmente giuste, e fatte con un tatto incredibile, che non potevi non accoglierle.

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Il lavoro di design immagino sia stato imponente, ma su Liberato e Lucia in particolare come vi siete mossi?

I personaggi sono dispositivi narrativi che amplificano o silenziano aspetti emotivi o di racconto. Il design è il punto d’accesso a questi sentimenti. Il mio primo obiettivo per il film è che Liberato e Lucia fossero irresistibili da un punto di vista emotivo, lo spettatore doveva volere loro bene. Partire da un personaggio senza volto, per ottenere questo livello di emotività, non era scontato.

Eravamo partiti con l’idea di trattarlo come una specie di Jigen di Lupin III, ma se già ti dico Jigen tu pensi a un figo pazzesco. Tutti i personaggi giapponesi con un ciuffo sul volto o sono dei tipacci o i più fighi del mondo. Freddi, sfuggenti, che non hanno bisogno di niente e di nessuno. E invece a noi serviva l’esatto contrario: fragile, emotivamente coinvolgente.

Quella è stata una sfida grande. Smentire un cliché grafico del fumetto giapponese e portarlo nella direzione opposta. Abbiamo fatto un po’ di tentativi, ma neanche tanti, in verità. C’è stato un momento in cui si vedeva un pezzettino in più di naso e di volto.

Lucia invece è un personaggio incasinatissimo dal punto di vista delle necessità narrative: doveva coniugare tanti bisogni, ed è la vera protagonista del film. Il character design è stato il primo strumento con cui abbiamo rotto il ghiaccio di questa sfida narrativa enorme: creare una storia emozionante e che si chiudesse in maniera soddisfacente nel giro di mezz’ora o poco più, per altro parcellizzata a botte di cinque minuti.

Qual è stata la scena più difficile?

Dunque, noi non avevamo il tempo per fare la fase della messa a modello, cioè aspettare che tutti gli animatori studiassero i model sheet, i turnaround, gli expression sheet, tutte quelle guide che servono per capire come si disegna un personaggio e poter essere tutti sulla stessa lunghezza d’onda.

Per cui abbiamo usato una tecnica abrasiva, per quanto mi riguarda, ma efficace: ho disegnato io tutte le pose chiave del film già dal punto di vista giusto, con le ombre e già posizionato sullo sfondo, così che gli animatori dovessero solo concentrarsi sulla recitazione e sul tempo che intercorre tra una posa e l’altra.

Poi loro avevano il compito altrettanto gravoso di lavorare, diretti, in produzione, e dover subito consegnare il girato. Questa è stata, forse, la difficoltà più grande del film, in generale. Detto questo, è strano indicare una scena più difficile perché ci sono delle inquadrature che dall’esterno sembrano semplicissime, tipo i primi piani di Lucia, ma che non lo sono. Il volto di Lucia è vuoto, il suo design è pieno di spazio negativo: ci sono pochi segni, ma quei pochi non possono essere sbagliati.

Il mio è uno stile di disegno che sta a metà tra quello occidentale e quello giapponese: non ha né l’efficace industrializzabile del manga e dell’anime né ha la profondità formale di un disegnatore occidentale. Mi sono reso conto che per fare l’animazione da un lato è figo, perché ha un po’ di efficienza nipponica, ma dall’altro ha dentro di sé questi segni che galleggiano nel volto che basta spostare di un millimetro per rovinare tutto. C’è stato un grande lavoro di controllo su quelle inquadrature, mentre invece alcune più spettacolari sono andate bene al primo colpo.

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Pensi che questa metodologia in cui disegni praticamente tutto il film sia adattabile a un progetto lungo?

Si può fare, però dipende dal progetto. Se ci sono scene di massa, no, devono esserci degli altri disegnatori che si occupino delle comparse. In quei caso non puoi proprio fare tutto. Mettiamola così: è un atteggiamento che mi permetto di definire un po’ da principiante, perché ti dà la sicurezza che verrà tutto come vuoi ma ti impedisce di sfruttare le professionalità dello staff a tua disposizione.

L’impressione che ho avuto io vedendo il film è che non c’era mai quell’effetto dell’aver preso la linea dell’autore e averla standardizzata. Sembra una cosa uscita da un unico autore, senza quello iato che, piccolo o grande, c’è in quelle produzioni che prendono a modello un segno molto personale. E forse è quella la sua forza, ci sei tu sullo schermo.

Questo è sicuramente vero. Ma con dei film progettati in maniera intelligente quel risultato si può comunque raggiungere. E aver capito che si può fare – perché io non ci pensavo, è venuta fuori come un dispositivo di sopravvivenza – mi ha dato consapevolezza sul fatto che si può gestire un film d’animazione così. Prima non lo pensavo possibile.

Però sempre con questi parametri da animazione limitata (che poi così limitata non è)?

Il termine esatto sarebbe “animazione full limited”, che è la stessa di opere come Neon Genesis Evangelion. Se da un lato c’è l’animazione completa dei film Disney, e dall’altro quella televisiva giapponese, “limited”, in cui si animano solo porzioni dei personaggi, l’animazione full limited cerca di animare il più possibile le figure per intero ma a un numero più basso di fotogrammi al secondo, contando tantissimo che la percezione cinetica sia nascosta nel disegno statico non tanto nella autentica di fotogrammi al secondo.

Il simbolo di questo stile è il combattimento tra Asuka e gli angeli bianchi in Evangelion: pochi fotogrammi ma scelti bene e giustapposti per creare movimento. Il nostro vantaggio è stato che non avevamo scene d’azione. Di nuovo, dipende da quanto si adatta bene, o sia ben adattabile, al progetto.

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Il successo del film ti fa venire voglia di dedicarti di più all’animazione?

Sì, ed è inutile che ti dica che ora c’è grande attenzione nei miei riguardi. Ne sono lusingatissimo, ma so che quello de Il segreto di Liberato è un successo che ho avuto principalmente perchè sto sulle spalle di due giganti come Liberato e Francesco Lettieri. Sono stato preso dal mio catamarano in mezzo al mare e messo sul transatlantico guidato da Giuseppe Squillaci, che ha fatto di tutto per trasformare la mia visione in realtà.

Però, si, sono partite un sacco di proposte e sarà una cosa che devo gestire con attenzione. Tuttavia, al momento sono orientato all’idea di concentrarmi sui libri, finire Geist Maschine e portare a termine i miei progetti. Nessuna delle mie precedenti esperienze di cinema sono state come questa, che è stata un paradiso sulla Terra.

Mi ero ripromesso di non fare più animazione, perché con i fumetti non devi rendere conto a nessuno. Da un lato è peggio, perché sei da solo e più stupido, e senza una visione e un’intelligenza corale che migliora il prodotto, dall’altra parte però non devi rendere conto a nessuno. Ed è una sensazione molto bella.

Devo bilanciare questi due aspetti, la possibilità di fare una cosa grande e bella, ma che impone di relazionarti con questioni produttive molto complesse e contorte, spesso al punto da essere molto difficili da accettare e quella di fare una cosa che è tutta nelle mie mani, senza alcun compromesso.

Però Il segreto di Liberato mi sembra comunque una “cosa tua”, anche perché tratta di adolescenti, gli stessi che popolano tutti i tuoi fumetti. Tu la senti un’opera tua tanto quanto i fumetti?

Io sono un formalista, nel bene e nel male. Sono cioè convinto del fatto che, con buona pace degli sceneggiatori, la forma finale di un’arte visiva come il cinema o il fumetto sia l’unica portatrice di significato. Quindi sento Il segreto di Liberato un’opera anche mia. Mi sento autore di quest’opera come mi sento autore dei miei fumetti, sia che siano sceneggiati da me o da altri.

Ho fatto questo film proprio perché sapevo che era un film nelle mie corde, come hai notato tu. Oltretutto mi riportava alle prime storie che raccontavo da ragazzino. Nella mia mente, Lucia e Liberato stanno insieme a Sol e Len e a Steno e Rosabella.

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